CHI DICE DONNA

TEORIA BISLACCA SUL MERITO E SULLA MEDIOCRITA’

La vicenda di Di Pietro e di suo figlio mi ferisce, ma come Travaglio ha nostalgia di Prodi, non vorrei anch’io pentirmi successivamente e poi magari pubblicamente dovermene dispiacere di qualche parola pubblicata a vanvera, proprio nei confronti di una persona come Antonio Di Pietro su cui ripongo massima fiducia. Perciò non dirò nulla, tanto più che il povero Cristiano Di Pietro ha pubblicato una lettera sul blog di Italia dei Valori in cui dichiara di lasciare l’Italia dei Valori e conseguentemente ogni incarico di partito ed anche il suo ruolo di Capogruppo al Consiglio provinciale di Campobasso.

A questo punto dico anche ad Antonio Di Pietro di andare avanti così, di continuare nella sua lotta contro la corruzione, perché tanti italiani credono ancora nella politica che persegue il bene e la felicità.

 

Apro tuttavia una maledetta parentesi sul merito e sull’invasione italica della parentela, ad ogni livello e  colgo perciò l’occasione per pubblicare un mio vecchio racconto che riguarda il cinema e il mondo dello spettacolo dove questa tara ereditaria del merito (o mediocrità) sembra trasmettersi per via puramente genetica.

 

Il Festival

di Giulia Penzo

 

“Siamo tutti figli d’arte!”, Lucia, dicendo queste parole, salutò il pubblico in sala ed entrò nel corridoio freddo dietro il sipario.

Le voci si rincorrevano sul largo corridoio illuminato a giorno e i concorrenti zompavano come galline alla rinfusa.

I figli degli artisti sono i felici geni delle opportunità. Non si capisce come in loro si riunisca il meglio e il meglio venga sempre fuori, si faccia sempre strada, trovi sempre la strada e, quando la perdono, questi esseri sono quelli che determinano come l’infelicità appartenga anche a pochi innominabili felici e come il talento si soffermi stranamente negli individui in maniera puramente casuale.

Davanti ai fotografi, giornalisti e politici, arrivati per lo spettacolo d’apertura del prestigioso Festival della Cinematografia d’Autore, erano tutti sorridenti.

Il Festival si apriva con una presentazione critica degli attori.

Gli attori sedevano dietro ad una lunga tavola posta sul palco, in maniera quasi congressuale, con il giornalista abbinato ad un attore o regista, in una sorte di strano vis à vis, e un presentatore che alternava le domande ad intermezzi musicali e a coreografici balletti di danza minimalista.

Gli attori sul palco sembravano proprio una gran bella famiglia ed erano tutti di buona famiglia, diciamo che erano quasi tutti figli d’arte!

Elargivano sorrisi a destra e a sinistra per non turbare nessuno, per non essere indifferente o, ancor peggio, supponente, anche se c’era chi, perennemente imbronciato, manifestava apertamente la propria alterigia perché sapientemente aveva intuito come un’aria misteriosa e sprezzante si confà un po’ a tutti e impedisce un’eccessiva confidenza, sempre molto utile in caso di domande problematiche.

Perché, bisogna pur dire che, per i figli d’arte, ogni volta è una fatica, una fatica immane distaccarsi da quello che è l’immaginario collettivo della figura paterna o di quella materna, per fare esattamente l’opposto, per sembrare l’opposto o comunque simile, per dimostrarsi capaci più, incredibilmente molto, molto ma molto più dei propri parenti.

O forse così, succedeva all’inizio.

Nel bel mezzo del successo arrivava l’approvazione della parentela, come la mano santa del prete benedice l’ultimo redento. Perché, naturalmente, come tutti, anche i figli d’arte ne fanno di gavetta.

Per esempio, la nostra Lucia, quella della frase iniziale, già aveva dato un’incredibile prova d’artista, quando aveva solo un anno e, durante la sequenza centrale, quella in cui l’attrice principale la prendeva in braccio, aveva lanciato un urlo – di solito i veri artisti improvvisano- davvero straziante, tanto che tutti, proprio tutti, avevano esultato: “Buon sangue non mente! È proprio straordinaria, ha recitato perfettamente la parte!”, e non importava che la scena dovesse risultare comica, perché il montaggio, come si sa, fa miracoli.

I figli d’arte fin dall’infanzia devono sopportare gli abusi della macchina da presa e, peggio del figlio di Piaget, perché lui almeno l’aveva subita in nome della scienza.

I figli d’arte non hanno l’infanzia normale, ma si vedevano o, meglio, s’intuivano, nelle pance materne che svettavano nelle foto dei vari settimanali o già adulti, a fianco di quell’attore o regista o produttore, che adesso li presentavano al pubblico con un vago sentore da sequel horror. Persino loro ne avevano ignorato l’esistenza, della prole, s’intende, e se la ritrovavano all’insaputa magari nel loro stesso film, sotto un nome diverso o magari col loro stesso nome – proprio non ci avevano fatto caso -, e non sapevano di essere padri o madri o zii o zie, nonne o nonni.

Anche Lucia, sia chiaro, aveva fatto tutto da sola.

Lei fin da piccola si ritrovava casualmente nel set ed era inserita nel cast a sua insaputa. E l’aria che aveva respirato, aria d’arte naturalmente, lei, gratis, poteva berne tranquilla a casa. Tutta quest’aria le conferiva un’aureola particolare, i capelli le ricadevano nel viso incorniciandolo, facendolo sembrare più bello e sicuramente espressivo.

E Lucia aveva studiato. Aveva frequentato l’accademia per diventare attrice, conosceva tre lingue diverse, aveva superato con successo un tribolante corso di dizione per far scomparire la ruzzolante erre, e aveva fatto volontariato con il figlio autistico del suo autista per ben 32 ore dilazionate su 45 mesi, al termine del quale il bimbo autistico aveva appreso un’erre alla francese davvero deliziosa. Dopo quest’esperienza drammatica, in cui aveva conosciuto la vera sofferenza, poteva affermare che lei, lei poteva dichiararsi ben disposta verso tutti.

Ecco perché si arrabbiò molto, quando la giornalista, davanti al pubblico che si era riunito in sala per la cerimonia d’apertura, le chiese: – E’ stato facile per lei lavorare con sua madre?

Lucia la guardò allibita. Quell’espressione le confaceva molto. Per imparare quest’espressione il Prof. Lefevbre del corso accademico di mimo/danza spaziale ne aveva diluito l’apprendimento, attraverso una segmentazione dell’espressione stessa, e per questo, per passare da un’espressione ad un’altra c’impiegava esattamente 0,5 secondi, il tempo minimo con cui l’espressione poteva essere percepita dall’occhio umano come naturale e non come prodotto artefatto.

La giornalista difatti non s’accorse dell’espressione successiva: per lei Lucia rimaneva sempre allibita.

Lucia rispose seraficamente: “Il nostro film, come saprà, ha come soggetto una rappresentazione immediata e contingente della realtà. Una realtà dura, di guerra, di fame, di donne sottomesse, private dei più elementari diritti umani. Parla di un paese dove le donne sono costrette a indossare il burqa. Lei sa cos’è il burqa?”

La giornalista le fece un segno d’assenso e lei continuò: “Ecco, noi donne siamo state costrette a portarlo durante la lavorazione del film, e anche quando uscivamo per la strada, era per noi impossibile girare senza indossarlo. In questo modo ho potuto capire cosa si prova ad essere oggetto di desiderio senza indossare nulla che potesse indurre ad esso. Questo è anche la prova che sotto il vestito niente, la grande fesseria occidentale, in realtà si può trasformare in sotto il vestito tutto, perché il desiderio si mantiene integro anche sotto una palandrana di lana, ed è segno che anche solo l’idea scatena il desiderio. “

La giornalista non capiva se Lucia avesse risposto alla sua domanda, ma continuò lo stesso nell’intervista. Certo non voleva dimostrare di essere incompetente.

 “Sua madre, grande attrice, non l’ha mai aiutata nel suo lavoro?” continuò imperterrita la giornalista.

“Mia madre? Sinceramente non sapevo che ci fosse mia madre. I truccatori erano bravissimi. Stavamo ore e ore al trucco. Sa, gli occhi, lavorando solo con l’espressione degli occhi, è difficile esprimere tutto con gli occhi. Avevamo negato il linguaggio del corpo. E’ stato veramente un film di ricerca. Una ricerca soprattutto dentro noi stessi. Credo che lo spettatore abbia capito qual è stato lo spessore che volevamo dare all’intera vicenda. Mia madre, se lei intende la madre del personaggio che interpreto, è una donna complessa, combattuta tra il rispetto della propria tradizione e il desiderio di imporre la propria femminilità. La sua pazzia è solo il sintomo di una società malata, di cui lei diventa il capro espiatorio”.

“E suo padre, il regista, è stato difficile per suo padre girare quelle scene di sesso?”

“Mio padre? Anche con mio padre tutto è risultato sorprendentemente semplice. Il burqa nascondeva la faccia ed io mi confondevo tra le altre. Lui mi trattava esattamente come un’attrice e, avere la consapevolezza che era l’occhio di mio padre quello che mi guardava e mi giudicava, costituiva per me una prova della stima che provava per me come attrice”.

“Suo zio, il famoso attore Palombo, che nel film interpreta il suo amante, ha affermato che lavorare con lei equivale a godere della levità di Audrey Hepburn e dell’intelligenza di Liv Ullmann. Lei che ne pensa?”

Ormai Lucia era entrata nella parte. Sapeva di aver conquistato il pubblico seduto in sala, che la guardava estasiato.

“Palombo è fantastico! Lui ha saputo interpretare la metafora del viaggio in una poetica dell’assurdo, per cui nei suoi gesti si ripercuote la miseria della terra, in un fiorire di segni di pace, dove i gesti dell’umano acquistano come bugiardi giani bifronte il significato di vita/morte, presenza assenza”.

La giornalista apparve agli occhi del pubblico improvvisamente cretina.

La bellezza di Lucia appiattiva la sua semplice avvenenza. La sua arguzia nel rispondere rendeva le domande della giornalista persino imbarazzanti.

Le luci si soffermarono per un attimo sul viso diafano di Lucia e tutti pensarono a quale concentrato di bellezza e intelligenza ci fosse in quella donna.

La giornalista cercò di riprendersi. Fece un piccolo sorriso al pubblico, tentando un finale degno della sua professionalità.

“Circolano voci che si presenterà come candidato al parlamento nelle prossime politiche. Darà l’addio al cinema?”

Lucia se l’aspettava. Guardò ironicamente la giornalista.

“Non credo si possa mai abbandonare qualcosa a cui si è destinati per amore. La vita è arte e siamo davvero tutti figli d’arte. Ora, a 35 anni, è arrivato il momento di pensare alla famiglia”.

Alla parola “famiglia” ci fu uno scroscio d’applausi.

Brava! Brava!

Il presentatore intervenne. Il tempo era scaduto e la giornalista doveva terminare la sua intervista.

Lucia e la giornalista quindi si alzarono e salutarono il pubblico con un inchino e uscirono dal palco, accompagnati dall’ovazione della sala.

“Siamo tutti figli d’arte!”, gridò Lucia rivolgendosi al pubblico per l’ultima volta elargendo baci a destra e a sinistra con la mano delicata.

Quando furono nel corridoio, Lucia si rivolse, abbracciandola, alla giornalista.

“Sei stata fantastica, grazie, sei proprio una sorella!”

“Sono tua sorella, Lucia”.

“Sì, ma non ti sei comportata da sorella. Sei una grande giornalista”.

“Lucia, ho fatto  solo il mio lavoro”.

 Lucia la guardò sorridente, come il solito la sorella si occupava di tutto, e con riconoscimento l’abbracciò: era bellissimo essere al festival, alla fine sembrava proprio una riunione di famiglia!

 

TEORIA BISLACCA SUL MERITO E SULLA MEDIOCRITA’ultima modifica: 2008-12-29T19:42:00+01:00da
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