CHI DICE DONNA

UNA FRAGOLA A COLAZIONE

 

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Se no, cavolo!, nel racconto non si parla di fragole a colazione!

 

 

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Dal post precedente

Anche Katia si poneva continuamente quella domanda. Perché illudere e volere un uomo accanto a sé? Ogni giorno a lottare: il lavoro, lo studio, gli amici, ma il senso delle cose, quello, dov’era andato? Nemmeno dal sesso avrebbe ricevuto un godimento ulteriore, il suo corpo lo percepiva come un qualcosa che si sarebbe potuto realizzare senza il minimo cambiamento del sentimento di utilità dell’esistente. Ecco perché Gianmaria avrebbe potuto essere per lei qualunque altro. Le ingiustizie nel mondo si conficcavano nella sua pelle e avrebbe voluto togliere quei piccoli spilli, ad uno ad uno. Alcuni speculavano su altri. Alcuni ricchi altri poveri, alcuni avevano il potere, altri lo subivano, alcuni mangiavano, altri facevano beneficenza alla faccia di chi non riusciva a mangiare. Pranzi e cene di beneficenza: bella beffa!

Quando invece si sarebbe realizzato il “Diventare coscienti della proprietà comune della superficie terrestre? sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco all’altro?”

Katia pensava che potesse essere sufficiente, la coscienza poteva. Proprietà comune: applicabile razionalmente.

Ma i rapporti umani non erano superficie terrestre, come allora integrarli in maniera tale che ciascuno non considerasse l’altro come diverso ma come persone con le quali tentare di entrare in rapporto di reciproco rispetto?

Si doveva per forza vivere nel regno dell’infelicità terrena, fatta di guerre, di duro lavoro, di realtà quotidiana avvilente per sperare di arrivare al regno della felicità ultraterrena, dove obbligatoriamente si aspetta la pace perpetua, il meritato riposo, il dialogo eterno?

Riconosceva la possibilità della felicità e che fosse un’utopia poco importava, Katia tentava di arrivarci con quella ragione che l’uomo proprio in quanto tale possiede. Non si sentiva una robin hood, non avrebbe rubato quel poco per darlo ai poveri. Come disvelare felicità nella verità della giustizia, se non giustiziando il bugiardo, non con la morte, ma togliendogli quello che lo rendeva diverso, quello di cui anche gli altri avrebbero dovuto appropriarsi, la bellezza, scambiata per l’inutilità all’ennesima potenza: il lusso.

 

Lourdes mi ha contattato stamattina, mi ha detto che stanotte si deve far trovare pronta, lei e le sue compagne. Il tipo l’ha chiamata e le ha detto di portare con sé ragazze belle e vogliose…, intendi, ti senti pronta?”, le disse Carmela, dirigendosi euforica verso l’armadio e risvegliandola dalle funeste riflessioni. Scelse una canottiera di paillettes bianca e un paio di pantaloni di pelle nera. “Mmh…., dici che mi stia meglio la canotta o il top rosa trasparente?”

Guardò la faccia dubbiosa di Katia e le si pose dinnanzi, viso a viso, “Sono dieci mesi che studiamo tutte le loro mosse, che abbiamo preso i collegamenti con Lourdes e le sue amiche; abbiamo la piantina dell’appartamento, non possiamo tirarci indietro adesso”, le disse come per convincerla.

Katia la guardò dubbiosa: “E se qualcosa va storto? Se sono più di due? Non abbiamo neanche il tempo di avvisare Gianmaria; lo sai che non possiamo usare il cellulare per questioni di sicurezza…”

Stasera non doveva passare a casa tua? Tua madre, quando arriva, non potrebbe avvisarlo che ci raggiunga al locale? Da lì può benissimo seguire tutte le nostre mosse, e poi sa che dobbiamo andare all’appartamento”, suggerì Carmela, mentre buttava sul letto la canottiera bianca e alzandosi, come se avesse preso una decisione, prendeva dall’armadio un altro top, in pizzo nero con intarsi in seta rosa. Si dimostrava sicura, ma non era tranquilla: quell’avvertimento improvviso, dover sostenere la presenza di più uomini, non conoscere le amiche di Lourdes.

Katia la guardò di traverso. Andò verso l’armadio e tirò fuori il vestito preparato per l’occasione. Prima di vestirsi si fecero entrambe una doccia veloce. Katia indossò un tubino di pelle nera con una zip laterale; la comodità era ottima e l’esito era sensazionale, quello di una sinuosa pantera, nonostante le sue non fossero curve da pin up. Bravi stilisti, qualche volta fanno il loro dovere, pensò distrattamente.

Prese dallo stipite due preziosi sandali neri dal tacco a spillo. Avrebbe sofferto quella sera, ma non sapeva ancora fino a che punto.

Si sciolse i capelli, cotonandoli un poco, per spettinarli, e si truccò pesantemente, con il rossetto più rosso e ripassando con la matita nera il contorno degli occhi azzurri, che spiccavano nel pallore del viso. Si guardò allo specchio e non si riconobbe: per un attimo si odiò profondamente. Sembrava una di quelle puttanelle che sbavano alla vista di un uomo, una di quelle che per un tiro di coca sono capaci di farsi qualche nonnetto.

Carmela invece era bellissima, sotto quella testa di fluenti capelli rossi ricci, il suo metro e settanta di altezza non passava certamente inosservato. L’unica nota stonata era rappresentata da quella cicatrice sull’angolo destro della bocca che le conferiva una nota di cinismo, un simbolo di beffa continua nei confronti del prossimo. Katia le aveva suggerito con delicatezza un intervento estetico, ma Carmela aveva sollevato le spalle, “Non cancello i ricordi”, le aveva risposto seccamente, toccando con le dita la piccola cicatrice, ma non le aveva ancora spiegato quale ricordo avesse deciso di tenersi per sempre. Arrivò il bip nel cellulare di Carmela. “Sono qui giù, ci stanno aspettando”, esclamò Carmela.

Salutarono frettolosamente la madre di Katia.

Mamma, mi raccomando, se viene Gianmaria, digli che siamo al solito locale, lui sa, e che ci venga a prendere il prima possibile.”

Va bene, ma … vai via così? Copriti con qualcosa, almeno!” la rimproverò sua madre, ben sapendo che la figlia già stava scendendo le scale, e comunque non l’avrebbe ascoltata .

Avrebbe passato una notte ad aspettarla e sperava davvero che Gianmaria arrivasse quanto prima.

Guardò dalla finestra la figlia e l’amica salire su una sprintosa macchina nera. E il buio della notte le inghiottì, lasciando nel volto della madre la preoccupazione di qualcosa di indefinito.

Katia e Carmela indossarono le mascherine nere sugli occhi prima di salire in macchina.

Katia percepì l’odore acre del vino e come al solito le sue narici si aprirono spaventate: gli occhi rossi dell’uomo seduto davanti le fecero paura. L’uomo si era girato verso di loro: “Siete pronte, bellezze?” E lasciò scivolare sui sedili posteriori, dov’erano sedute, uno strano involucro. Quella notte non sarebbe stata una notte qualunque…

 

(continua)

 

UNA FRAGOLA A COLAZIONEultima modifica: 2009-11-11T08:30:00+01:00da
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