CHI DICE DONNA

Nego, …alterum nego

Due vite diverse, molto simili: si incrociano, si confondono…

Il disegno

(Nego, …alterum nego)

Nego…

Ho paura.

L’altra donna, che stava con me in cella, ora la sento gridare: le ore del travaglio le sento nelle viscere, un male che ti rovescia l’intestino: vorrei già passate queste grida, queste ore interminabili.

Un breve colloquio al consultorio, mi avevano detto all’ospedale. Va bene, ormai ho già le idee chiare, pensavo. Ma, prima del ginecologo, dovevo parlare con qualcuno, per parlare di vita, ma un figlio rimane a me, solo a me per la vita, e le parole fuggono.

Mi sono presentata al consultorio: nella sala d’attesa c’era uno strano movimento e, quando sono entrata nella stanza del colloquio, mi hanno incappucciato. Lì per lì non ho capito. Ho pensato ad uno sbaglio, ma poi mi sono trovata rinchiusa in una cella.

Ho trascorso nove mesi in una prigione. Il bello di tutto questo è che ero all’ingrasso come un maiale. Certo, ho immaginato la mia ribellione: per un mese non ho mangiato, ma hanno insistito con la flebo, e allora ho preferito mangiare normalmente. Dovevo far nascere questo figlio, in qualsiasi modo.

Silenzio.

È finita la tortura: ad Alice, mia compagna di cella, è stato fatto il cesareo. – È nata una bambina. Mi dicono. Alice viene portata in cella ancora mezza addormentata. Si lamenta come un gattino affamato. Tra poco dovrei andare anch’io. Mi vengono a prendere. Aprono la cella e mi caricano su una sedia a rotelle: mi portano in sala travaglio, non voglio fare resistenza. È troppo il dolore che preme verso il basso. La sala ha due lettini sporchi: le lenzuola del lettino dove sono sdraiata puzzano di sudore e sangue.

La nostra cara mammina è pronta? Mi chiede il ginecologo, infilandomi la mano fin dentro l’utero, tanto che mi sembra lo voglia strappare. Un grido mi sfugge e mi arriva uno schiaffo e un dolore acuto e tutto sembra un soffio all’improvviso che mi avvolge e mi percuote, e la luce è intensa e ancora soffi, e soffi che arrivano come il vento della brezza marina.

Ancora silenzio.

Dove sono?

Anna!

– Amore, finalmente! Dove sei stato? Chiedo a mio marito, che se ne sta seduto vicino al mio letto, tenendomi per mano.

– Mammina!

È Nicola, il mio bimbo che mi chiama, la sua manina mi sfiora. Lo accarezzo: da troppo tempo mi manca. Ha appena tre anni e chissà quanto ha sofferto per la mia lontananza.

– Dove sono? Chiedo a mio marito.

Ho la voce flebile, faccio fatica a parlare e un dolore al ventre che me lo fa sentire inesistente e pulsante allo stesso tempo.

– È nata Alice. Ti piace, vero, questo nome? Era quello che desideravi se nasceva una femmina. È nata una femmina, sei stata brava.

– Ma che dici? Mi hanno imprigionata, sono stata via quasi nove mesi e non mi sai dire nient’altro che questo? Perché non mi hai cercato?

Non so come esprimere la sofferenza della mia solitudine a mio marito.

– Stai vaneggiando! Quali mesi? Dove saresti stata? Siamo sempre stati insieme! Siamo arrivati qua, in ospedale, ieri notte. Dai, sei stanca, riposati.

Comincio ad essere dubbiosa. Possibile che mi sia inventata tutto, che non riesca a ricordare più niente dal momento del parto? Avevo immaginato ogni cosa? Ero andata in consultorio per un colloquio, per un incontro con alcune persone prima di scegliere e decidere se tenere o no questo bambino. Non volevo quel figlio che era nato e come mai, invece, era nato?

Trauma da parto, baby blues, ecco! Devo far finta che non è successo niente, anzi, mi sono inventata tutto: Alice l’ho sempre desiderata.

– Dobbiamo andare. Nico, saluta la mamma, che ora deve riposare. Dice papà, strattonando Nicola e mi guarda come per rassicurarsi che tutto vada bene.

In effetti, sono stanca, e forse è meglio che riposi un po’.

Prima di andare, il mio bimbo, dagli occhi di zenzero, mi guarda e mi consegna un disegno. Che bello! Lui ama disegnare e lo immagino chino sul foglio, con la testolina di soffice peluria, intento a fare il disegno per la sua mamma.

– Ciao, mamma.

– Ciao, amore.

Se ne vanno tutti e due, papà e figlio. Ora riposerò un po’, finalmente. Avevo fatto davvero un orribile incubo.

Prendo il disegno di mio figlio e lo guardo per addormentarmi felice, ma quello che vedo è crudele: la mamma è disegnata sopra una pozza di sangue e dietro le nere sbarre di una cella.

 

alterum nego

Ho paura.

L’altra donna, che stava con me in cella, ora la sento gridare: le ore del travaglio le sento nelle viscere, un male che ti rovescia l’intestino; vorrei già passate queste grida, queste ore interminabili.

Un breve colloquio al consultorio, mi avevano detto all’ospedale. Va bene, ormai ho già le idee chiare, pensavo. Ma, prima del ginecologo, dovevo parlare con qualcuno: parlare di vita, ma un figlio rimane a me, solo a me per la vita, e le parole fuggono.

Mi sono presentata al consultorio: nella sala d’attesa c’era uno strano movimento, e quando sono entrata nella stanza del colloquio, mi hanno incappucciato. Lì per lì non ho capito. Ho pensato ad uno sbaglio, ma poi mi sono trovata rinchiusa in una cella.

Ho trascorso nove mesi in una prigione. Il bello di tutto questo è che ero all’ingrasso come un maiale. Certo, ho immaginato la mia ribellione: per un mese non ho mangiato, ma hanno insistito con la flebo, e allora ho preferito mangiare normalmente; dovevo far nascere questo figlio, in qualsiasi modo.

Silenzio.

È finita la tortura: ad Alice, mia compagna di cella, è stato fatto il cesareo. – È nata una bambina. Mi dicono. Alice viene portata in cella ancora mezza addormentata. Si lamenta come un gattino affamato. Tra poco dovrei andare anch’io. Mi vengono a prendere. Aprono la cella e mi caricano su una sedia a rotelle: mi portano in sala travaglio, non voglio fare resistenza. È troppo il dolore che preme verso il basso. La sala ha due lettini sporchi: le lenzuola del lettino dove sono sdraiata puzzano di sudore e sangue.

La nostra cara mammina è pronta? Mi chiede il ginecologo, infilandomi la mano fin dentro l’utero, tanto che mi sembra lo voglia strappare. Un grido mi sfugge e mi arriva uno schiaffo e un dolore acuto e tutto sembra un soffio all’improvviso che mi avvolge e mi percuote, e la luce è intensa e ancora soffi, e soffi che arrivano come il vento della brezza marina.

Ancora silenzio.

Dove sono?

Signora, come sta? Le portiamo la bambina? Dove sono i vestiti della bambina?

Faccio cenno di no, no, no, non voglio capire, non voglio farmi capire.

Sono mezza intontita.

Vicino a me l’interprete. Mi chiede dove sta mio marito. Le infermiere mi girano intorno o è il mio letto che gira intorno a loro.

Il numero, devo telefonare.

Chiedo il cellulare e faccio il numero: quello me lo ricordo bene.

– E’ pronto, venite a prenderlo.

Parlo nel mio dialetto e l’interprete non mi capisce e non sa riferire alle infermiere che lo guardano con aria interrogativa. Per mesi mi sono ripetuta quel numero tra le labbra ed anche i soldi, il numero dei soldi che tra poco dovrebbero arrivare.

– Arriva tra poco. Dico all’interprete.

Dopo mezz’ora lui arriva; è alto, biondo, anche lui con un accento strano che non riesco a decifrare. È un uomo bellissimo: questa bimba non avrebbe potuto avere di meglio.

Le infermiere portano al presunto padre la bambina e lui la prende teneramente tra le braccia.

– Dobbiamo partire, l’aereo parte tra due ore e dobbiamo sbrigarci. Il padre straniero si rivolge a noi con dolcezza.

Il ginecologo spiega, per quanto è possibile a gesti e con quello scarso miscuglio d’inglese e francese che conosce, che potrei avere problemi e mi consiglia di rimanere in ospedale ancora per qualche giorno, ma io preferisco firmare la liberatoria e l’uomo straniero m’incoraggia e mi sostiene. Si fa garante lui con il medico e al medico sembra proprio una bella persona di cui fidarsi. Me ne vado aggrappandomi a quell’uomo che non conosco e che tiene nelle braccia mia figlia.

Saliamo nel taxi.

Poche parole, solo uno scambio.

Fermata.

Scendo dalla macchina. Il taxi si allontana da me con mia figlia e l’uomo straniero.

Respiro profondamente per assaporare la libertà, l’utero pulsa quanto il mio cuore, ma quello che vedo davanti a me è crudele. Sul cartellone pubblicitario, attaccato al muro di fronte, campeggia una grande scritta:

Giù le mani dalla famiglia”.

 

di Giulia Penzo

Nego, …alterum negoultima modifica: 2009-05-22T22:18:00+02:00da
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